Maggio 9

La sindrome del 3%

La sindrome del 3%
di Nicola Puttilli

In un convegno dell’ANDIS svoltosi recentemente a Montegrotto si è parlato di rigenerazione urbana e di come l’intreccio virtuoso fra protagonismo degli enti locali e progettazione delle autonomie scolastiche sia in grado di produrre piccoli gioielli di partecipazione democratica, cura del territorio e proposta pedagogica. Esperienze che si stanno realizzando su tutto il territorio nazionale, senza distinzione tra nord e sud, città metropolitane e piccoli comuni, ordini di scuola.

Nel sentire parlare con giustificato entusiasmo docenti, dirigenti scolastici e architetti di queste brillanti esperienze non ho potuto non ripensare con una certa dose di rammarico a quanto accaduto nell’area torinese a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

A seguito delle grandi innovazioni pedagogiche introdotte negli anni ’60/’70 nella scuola elementare e in parte anche nella scuola media, a partire dal tempo pieno e dalla didattica per laboratori ispirata in gran parte a Francesco De Bartolomeis, docente di pedagogia nell’università di Torino, furono progettate e costruite nei quartiere periferici della città, una decina di scuole che rispondevano in buona misura ai criteri di questo modello pedagogico: pareti mobili per trasformare le aule in atelier/laboratori, “buca” circondata da gradinate per le attività teatrali, spazi esterni da adibire ad orto e attrezzature per attività, si direbbe oggi, outdoor. Anche la città, sotto la regia di due assessori ex direttori didattici come Gianni Dolino e Fiorenzo Alfieri, si dispose come un immenso laboratorio mettendo a disposizione delle scuole teatri, musei, spazi di incontro e perfino ex colonie marine trasformate in laboratorio mediterraneo.

La “verve” innovativa durò alcuni anni, poi, complice anche la tragedia dell’incendio al cinema “Statuto” nel 1984 con i suoi 64 morti, cominciò lentamente ma inesorabilmente a declinare. La più che giustificata attenzione alla sicurezza divenne , in alcuni casi, vera e propria ossessione inducendo molti capi istituto a logiche più che prudenziali. Le prime ad essere “chiuse” furono le buche teatrali, troppo il rischio che qualche bambino un po’ distratto facesse qualche brutta caduta, poi si rinunciò alle pareti mobili, ritornando un po’ alla volta alla più tranquillizzante routine della classe e lasciando all’attività laboratoriale qualche specifico spazio specializzato, utilizzato sempre più sporadicamente.

Le principali ragioni del ritorno a una “architettura” e a una didattica tradizionale non furono, ovviamente, legate solo a ragioni di sicurezza ma soprattutto all’incapacità del nuovo modo di fare scuola di tradursi in un processo consolidato e duraturo e, soprattutto, fatto proprio dalla generalità, o quasi, del corpo docente.

Nel convegno di Montegrotto qualcuno ha detto che le scuole innovative che rompono il rapporto classe/aula attraverso una serie di spazi formativi in grado di disarticolare la didattica puramente trasmissiva, costituiscono circa il 3% dell’intero patrimonio scolastico italiano. Anche oggi, come ai tempi delle esperienze torinesi, esistono insegnanti, dirigenti scolastici, amministratori locali, professionisti con volontà e competenze per innovare e sperimentare; ancora oggi rappresentano avanguardie che non riescono a trasformarsi in massa critica per modificare nella sostanza il “modo di essere” della nostra scuola. Per questo salto di qualità (oltre alle ingenti risorse, ma neanche quelle del PNRR hanno prodotto cambiamenti significativi)  servirebbero alcuni passaggi strutturali che la scuola italiana è stata, nel tempo, in grado di individuare e definire ma non di realizzare. Molto sinteticamente i principali nodi irrisolti sembrano essere:

–   la  formazione di tutto il personale, non è infatti possibile il passaggio generalizzato da una didattica trasmissiva a una didattica attiva e partecipata senza un’adeguata e continua formazione, a partire da quella iniziale, anche per i dirigenti scolastici nella logica di una leadership formativa tesa al raggiungimento degli   obiettivi (nella quale rientra l’accettazione di un margine di rischio ragionevole, con le opportune garanzie);

–    la dotazione alle autonomie scolastiche di un “organico funzionale” sganciato dal rigido rapporto con l’unità classe e legato al progetto di istituto nelle sue varie  articolazioni;

–   il rafforzamento dell’autonomia scolastica, anche dal punto di vista finanziario, per la realizzazione del proprio progetto educativo senza le continue interferenze e gli eccessivi vincoli della burocrazia ministeriale.

Disponiamo di un quadro normativo che non solo consente ma prevede la realizzazione di un’autonomia scolastica compiuta, così come abbiamo avuto tentativi di organico funzionale fin dalla legge 440 del ’97 e di formazione generalizzata del personale (legge 107: formazione obbligatoria, permanente e strutturale). Purtroppo molto, quasi tutto, è rimasto sulla carta; sono venuti meno i decreti attuativi, gli accordi contrattuali e soprattutto le risorse e la volontà politica di realizzare quanto previsto dal legislatore e un po’ alla volta la burocrazia scolastica si è ripresa gli spazi che non sarebbero più di sua competenza.

Il governo attuale tende a ignorare completamente questi aspetti, concentrato com’è da un lato a dare un ulteriore colpo all’autonomia intervenendo anche sulle minutaglie dell’organizzazione scolastica e dall’altro in un’operazione tutta ideologica ( vedi indicazioni primo ciclo ma non solo) tesa  a stabilire sulla scuola italiana  l’egemonia culturale di una parte politica il cui pensiero pedagogico è fermo a Giovanni Gentile.

Per andare oltre il 3% dobbiamo aspettare ancora.


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Posted 9 Maggio 2025 by admin in category articoli