Maggio 18

Dopo la scuola: l’educazione continua?

Dopo la scuola: l’educazione continua?
di Bruno Lorenzo Castrovinci

Nel linguaggio quotidiano, spesso confondiamo i termini istruzione ed educazione, come se indicassero un unico processo. Ma non è così. L’istruzione riguarda la trasmissione di conoscenze, di competenze tecniche e teoriche; l’educazione, invece, coinvolge la crescita integrale della persona, tocca l’etica, l’affettività, la consapevolezza di sé e degli altri. In un sistema scolastico sempre più orientato alle performance, alla valutazione standardizzata e alle competenze certificabili, c’è il rischio di dimenticare questa differenza sostanziale.

Da un punto di vista giuridico, l’istruzione obbligatoria è un diritto riconosciuto, mentre l’educazione ha una portata più ampia, non sempre formalmente tutelata. Eppure, come sottolinea l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’educazione deve mirare “al pieno sviluppo della personalità umana”. Ciò implica che, oltre alla dimensione nozionistica, la scuola dovrebbe farsi carico anche della crescita morale, sociale ed emotiva dell’individuo.

Jean-Jacques Rousseau, nell’Emilio, distingueva tra l’educazione impartita dalla natura, dagli uomini e dalle cose. Solo un equilibrio tra questi tre educatori può portare a una vera formazione dell’individuo. In questa prospettiva, la scuola è solo una delle voci, e non necessariamente la più incisiva.

Dal punto di vista psicologico, questa differenza tra educazione e istruzione ha importanti ricadute sullo sviluppo identitario. L’istruzione si rivolge alla mente, l’educazione all’interiorità. L’una forma l’intelletto, l’altra la coscienza. La psicologia dell’educazione ha dimostrato che un apprendimento significativo è possibile solo quando l’allievo è coinvolto sul piano emotivo e valoriale.

Anche la sociologia dell’educazione evidenzia come i due concetti riflettano funzioni diverse: l’istruzione risponde a logiche di sistema, standardizzazione e selezione; l’educazione, invece, è strettamente legata ai contesti culturali, ai modelli familiari e sociali, e ai processi di trasmissione di senso. Per questo, oggi più che mai, è necessario un dialogo continuo tra scuola, famiglia e territorio per tenere viva la dimensione educativa dell’esperienza scolastica.

La scuola prepara alla vita?

Questa domanda, tanto semplice quanto provocatoria, si affaccia con urgenza nella mente di chi osserva il crescente divario tra mondo scolastico e mondo reale. La scuola tradizionale ha spesso insegnato a ripetere più che a pensare, a seguire più che a scegliere. La vita, però, non è un compito in classe. È fatta di incertezze, di strade non segnate, di errori non previsti e di domande senza risposta. Come può una scuola che premia la conformità educare alla libertà?

Questo interrogativo tocca un nodo pedagogico essenziale, ma anche profondamente giuridico e sociologico. L’articolo 2 della Costituzione italiana tutela i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Se l’educazione alla libertà, al pensiero critico e alla responsabilità personale non è garantita nel percorso scolastico, viene meno un presupposto fondativo della convivenza democratica. La scuola, dunque, non è soltanto luogo di istruzione, ma laboratorio di cittadinanza.

Dal punto di vista sociologico, il rischio maggiore è quello della scuola come agenzia di riproduzione sociale. Come ricordava Paulo Freire, l’educazione bancaria – dove l’allievo è un contenitore da riempire – non produce soggetti critici, ma individui docili. Solo una scuola dialogica, che mette al centro l’interazione, l’autenticità e l’esperienza personale, può preparare alla vita nel senso pieno del termine.

Maria Montessori parlava di “educazione come aiuto alla vita”, sottolineando la necessità di lasciare emergere la spontaneità del bambino, di accompagnare la crescita e non di sostituirsi ad essa. Ma l’adulto non è meno bisognoso di questo aiuto. Dal punto di vista psicologico, lo sviluppo dell’autonomia, del pensiero divergente e dell’autoregolazione emotiva è un processo che continua per tutta la vita. La scuola può agire come fattore protettivo rispetto alla disgregazione identitaria e alla dispersione, purché non riduca l’apprendimento a mera acquisizione meccanica di nozioni.

Se la scuola ha un senso, è nel fornire strumenti per continuare a imparare, anche dopo che suona l’ultima campanella. Strumenti che aiutino a scegliere, a sbagliare, a ricominciare. A vivere, non solo a sapere.

L’educazione come diritto: prospettiva giuridica

La Costituzione Italiana sancisce, all’articolo 34, che “la scuola è aperta a tutti” e che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Tuttavia, è l’articolo 3 ad assumere un rilievo ancora maggiore per chi si occupa di educazione, proclamando l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini e il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. È qui che il principio dell’educazione permanente trova il suo fondamento più profondo poichè in una società democratica e complessa, il diritto all’apprendere deve accompagnare ogni fase dell’esistenza, affinché ciascuno possa realizzare pienamente la propria umanità.

Questo principio è ribadito anche in ambito internazionale. La Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 2012 invita gli Stati membri a promuovere strategie di apprendimento permanente che comprendano l’educazione formale, non formale e informale. L’UNESCO, nella sua visione di “Learning to Be” e “Learning to Live Together”, sostiene che l’apprendimento continuo è la chiave per la pace, la coesione sociale e la sostenibilità globale.

Da un punto di vista operativo, ciò significa che la scuola non può limitarsi a istruire, ma deve diventare un centro di orientamento culturale e civico per la comunità. I dirigenti scolastici, in quanto garanti del diritto all’istruzione, devono leggere il proprio mandato anche in chiave costituzionale e sociale e favorire, quindi, percorsi di crescita per gli studenti, ma anche per le famiglie, i docenti e il territorio.

Promuovere il diritto all’educazione non come fatto episodico, ma come missione continua, significa interpretare la scuola come presidio democratico, capace di includere, accogliere, trasformare. E significa investire in formazione continua, costruzione di reti, dialogo interistituzionale e progettualità condivisa. L’educazione permanente, dunque, non è solo un’aspirazione etica ma un impegno costituzionale che chiama in causa la responsabilità collettiva.

Dimensione sociologica dell’apprendere

Dal punto di vista sociologico, l’educazione permanente risponde al bisogno, sempre più evidente, di una cittadinanza attiva e consapevole. In una società liquida, come direbbe Zygmunt Bauman, dove i riferimenti culturali e professionali mutano rapidamente, la capacità di adattamento diventa fondamentale. Ma non basta adattarsi; è necessario anche comprendere, valutare criticamente, intervenire nella realtà. Il sociologo Ulrich Beck, nel descrivere la “società del rischio”, sottolinea l’urgenza di formare individui capaci di prendere decisioni complesse in contesti incerti, affermando che l’educazione deve, quindi, stimolare la responsabilità individuale e collettiva, non solo la competenza tecnica.

Pierre Bourdieu ci ha insegnato che l’accesso al sapere è spesso mediato dal capitale culturale e simbolico delle famiglie. L’educazione formale tende a riprodurre i privilegi esistenti se non è accompagnata da misure intenzionali di riequilibrio. Offrire occasioni di educazione continua significa ridurre le disuguaglianze e offrire a ciascuno la possibilità di affrancarsi da una condizione di subalternità sociale. Inoltre, attraverso processi di apprendimento collaborativo, di mentorship e di valorizzazione delle competenze acquisite nella vita quotidiana, si può costruire un sapere realmente inclusivo e partecipato. In tal senso, l’educazione permanente diventa uno strumento di emancipazione, capace di trasformare non solo i singoli, ma le comunità intere.

Aspetti psicologici dell’apprendimento permanente

L’apprendimento non si esaurisce con lo sviluppo cognitivo del bambino o dell’adolescente. Le teorie dello sviluppo, da Vygotskij a Bruner, ci insegnano che la zona di sviluppo prossimale esiste anche nell’adulto. L’educazione continua favorisce il benessere psicologico, potenzia l’autoefficacia, rafforza l’identità personale. Apprendere da adulti significa dare senso alla propria esperienza, reinterpretarla, riappropriarsi della propria storia. È un processo che implica consapevolezza, metacognizione e apertura al cambiamento, tutti elementi che contribuiscono alla costruzione di un Sé riflessivo e dinamico.

Studi di psicologia cognitiva e neuroscienze hanno dimostrato che la plasticità cerebrale si mantiene attiva anche in età avanzata, a patto che vi siano stimoli adeguati. Attività come la lettura, il problem solving, l’apprendimento di nuove lingue o abilità musicali contribuiscono a mantenere e rafforzare le connessioni sinaptiche. Inoltre, il coinvolgimento sociale e affettivo nei percorsi di apprendimento agisce come fattore protettivo contro l’isolamento e il declino cognitivo. L’educazione permanente, in tal senso, non è solo un diritto o un’opportunità, ma una necessità per il benessere mentale e relazionale dell’individuo.

La scuola, se progettata con attenzione, può essere un luogo di stimolazione mentale per tutte le età. Ciò comporta un ripensamento degli spazi, dei tempi e delle metodologie, con un’apertura a proposte intergenerazionali, laboratori esperienziali e percorsi personalizzati. L’inclusione di adulti nei contesti educativi, siano essi genitori, nonni o cittadini coinvolti in progetti di lifelong learning, arricchisce il tessuto scolastico e rafforza il senso di comunità educante.

L’educazione permanente, un’urgenza del nostro tempo

Viviamo in un tempo accelerato, dove il sapere di ieri è già obsoleto oggi. L’avvento della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e della globalizzazione ha trasformato radicalmente le modalità di accesso alla conoscenza, rendendo necessaria una revisione profonda dei modelli educativi tradizionali. In un mondo così mutevole, l’educazione non può essere confinata all’infanzia e all’adolescenza. Deve diventare permanente, un modo di essere più che un periodo della vita. Edgar Morin ci invita a pensare in modo complesso, a sviluppare una mente capace di navigare tra discipline, linguaggi e culture. La formazione continua, in questa ottica, non è un’eccezione per pochi, ma una condizione necessaria per tutti, specie in un contesto lavorativo dove le professioni cambiano con rapidità crescente e la capacità di apprendere è la competenza più richiesta.

L’educazione permanente si alimenta di esperienze, letture, incontri, fallimenti e riflessioni. È un processo dinamico che interseca dimensioni cognitive, emotive, relazionali e morali. Ogni errore diventa apprendimento, ogni scelta un laboratorio, ogni relazione un’occasione di scambio trasformativo. Dal punto di vista psicologico, imparare costantemente consente di mantenere un’identità flessibile e resiliente, capace di affrontare l’incertezza. Dal punto di vista sociale, promuove una cittadinanza attiva e critica.

Chi esce dalla scuola con la convinzione che si studia per prendere un voto o per trovare un lavoro è destinato a vivere in modo mutilato, imprigionato in una visione strumentale e utilitaristica del sapere. Chi invece impara a imparare, come ci esorta a fare anche la Commissione Europea nelle sue raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente, scopre che la vera educazione comincia proprio dopo la scuola. È nel tempo dell’incertezza, dell’errore, della scoperta continua che si radica la libertà autentica del soggetto.

Il ruolo trasformativo della scuola

I dirigenti scolastici, in quanto leader educativi, hanno la responsabilità di rimettere al centro questa visione lunga dell’educazione. Una scuola che educa davvero è una scuola che forma alla responsabilità, al pensiero critico, alla resilienza, al senso del limite e del possibile. È una scuola che sa perdere tempo per formare esseri umani, non solo studenti eccellenti. Questo richiede un cambiamento di paradigma: dal dirigere all’inspirare, dal controllare al facilitare, dal valutare al comprendere.

Nel quadro delle responsabilità istituzionali, i dirigenti sono anche garanti dell’attuazione di una missione costituzionale: promuovere l’inclusione, l’equità, l’educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva. È quindi essenziale che agiscano da promotori di alleanze educative con famiglie, associazioni, enti locali, università e mondo del lavoro, creando sinergie in grado di sostenere lo sviluppo integrale di ogni studente.

Servono ambienti che valorizzino la riflessione, il dialogo, l’interdisciplinarità, e pratiche che permettano agli studenti di mettersi in gioco come persone. Laboratori di pensiero filosofico, pedagogie attive, tutoring tra pari e approcci metacognitivi dovrebbero entrare nella quotidianità scolastica. L’alternanza scuola-lavoro, se ben orientata, può essere una palestra di educazione alla realtà e non solo un’esperienza episodica. La lettura, l’arte, il teatro, le esperienze all’aperto, il service learning e la partecipazione attiva sono strumenti potenti per mantenere viva la tensione tra sapere e vita. Inoltre, l’inclusione di pratiche di auto-valutazione e feedback continuo aiuta studenti e docenti a percepirsi come parte di un processo evolutivo di crescita e scoperta reciproca.

Conclusione: la scuola come inizio

La scuola non è un traguardo, ma una soglia. Non il compimento dell’educazione, ma il punto da cui essa comincia a camminare con le proprie gambe. È il luogo in cui si gettano le fondamenta per un’esistenza consapevole, responsabile, capace di trasformare la realtà. Se oggi siamo chiamati a ripensare il senso dell’educare, è perché ci rendiamo conto che non basta più “istruire per competenze” ma occorre educare per la vita, per il pensiero critico, per la solidarietà, per il dubbio e per il coraggio.

La scuola che vogliamo è una scuola generativa, capace di accogliere la complessità, di mettere in dialogo saperi e vissuti, di aprirsi al mondo senza perdere la propria identità. È una scuola che educa all’imprevedibile, che forma all’interrogazione prima ancora che alla risposta, e che sa che ogni allievo è un progetto in cammino, non un contenitore da riempire.

Solo così potremo dare senso alla scuola che vogliamo, una scuola che non si chiude nel perimetro dell’aula, ma che accompagna lo studente nel viaggio più importante, quello verso se stesso e verso la collettività, nel delicato equilibrio tra autonomia e appartenenza.

“L’educazione non è preparazione alla vita; l’educazione è la vita stessa.” – John Dewey


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Posted 18 Maggio 2025 by admin in category articoli