Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa: una discontinuità rischiosa?
Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa: una discontinuità rischiosa?
di Antonio Valentino
Il primo impegno previsto dalla legge di riforma a cui sono chiamate le scuole è, come è noto, dotarsi del Piano Triennale dell’Offerta Formativa. Che, anche secondo la riscrittura dell’art. 3 del Regolamento dell’Autonomia (DPR 275/99), viene elaborato, dal Collegio Docenti, “sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico [DS]”.
Lo spostamento dal CdI al DS della competenza sulla definizione degli indirizzi, è indubbiamente la novità più contestata e contestabile, soprattutto perché si muove secondo linee di governance che non si sa dove vanno a parare. Contestazione giusta quindi, anche se, sul piano operativo, questa scelta cambierà poco le pratiche e gli orientamenti che hanno prevalso nelle nostre scuole per quanto riguarda l’elaborazione del POF: che un po’ ovunque ha sempre visto in prima linea il DS, sia in termini di individuazione di linee guida che di criteri operativi per la stesura.
Ma l’aspetto che qui si intende riprendere e sottolineare – per quanto riguarda la definizione degli indirizzi – è che il DS dovrà tener “conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori e, per le scuole secondarie di secondo grado, degli studenti“ [1]. Viene ribadito anche, nel nuovo testo, che “Ai fini della predisposizione del piano, il dirigente scolastico promuove i necessari rapporti con gli enti locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti nel territorio” (L. 107/2015, comma 14).
In altri termini, questo nuovo ‘potere’del DS sembra, come dire, bilanciato da misure che lo legano ai risultati degli incontri e consultazioni con gli organi collegiali della scuola, e non solo.
Sono comunque ancora da capire le ragioni dello spostamento della competenza sopra richiamata.
Una interpretazione possibile è che il legislatore abbia inteso superare così alcune delle ambiguità e opacità del modello degli organi collegiali del 1974 – dove la questione delle responsabilità si perde nell’indistinto della collegialità – e mettere in capo ad un soggetto responsabile (nel senso che risponde in prima persona): il DS – la definizione degli indirizzi per il POF. Ma – sempre secondo tale interpretazione – lo stesso legislatore avrebbe inteso comunque controbilanciare questo potere (competenza), prevedendo l’obbligo per il DS di raccogliere proposte. e pareri ecc., e conservando al CdI la competenza dell’approvazione (che è, tra l’altro, nozione più forte della semplice adozione del Regolamento del ’99).
Gli adempimenti previsti per arrivare agli indirizzi sembrano collocabili, a tutti gli effetti, dentro una idea di scuola pubblica come scuola delle comunità che in essa si esprimono; a partire ovviamente da quella professionale dei docenti. In continuità, sotto questo versante, con la ‘filosofia’ degli organi collegiali.
Il cambiamento / la discontinuità sembra piuttosto collocarsi – anche alla luce di altre competenze attribuite al DS nella legge di riforma (la individuazione dell’organico per i posti vacanti, l’attribuzione del premio di “valorizzazione della professionalità”) – nella previsione di un modello organizzativo che punta a recuperare, a partire dal DS, la centralità della rendicontazione e del rispondere delle scelte che si fanno e di come le si “agiscono”.
E ciò all’interno di un’idea di scuola che non perderebbe la sua dimensione collegiale, ma la collocherebbe dentro nuove regole incardinate sull’asse dei valori sopra richiamati. Dentro una prospettiva di questo tipo si dovrebbero collocare, a proposito di Piano Triennale, le nuove responsabilità del DS riguardanti:
- le scelte finali rispetto agli indirizzi e il carattere e il valore delle mediazioni – per quanto riguarda i bisogni considerati prioritari e le soluzioni più adeguate –
- la qualità delle indicazioni operative e valoriali e il livello di coinvolgimento e consenso.
Responsabilità / competenze che comunque non lo configurerebbero come dominus della situazione, ma piuttosto come interprete dei bisogni formativi e delle proposte risolutive che è tenuto a raccogliere e vagliare in vista degli indirizzi.
È con questa nuova caratterizzazione della figura dirigente soprattutto, più che con la triennalità o la previsione dell’organico potenziato e le risorse dedicate per alcune attività considerate obbligate (alternanza, competenza digitale …), che il Piano sembrerebbe marcare un cambiamento di paradigma rispetto alle visioni e pratiche precedenti.
Detto in altri termini: con lo spostamento sul DS del potere di definire indirizzi per il POF, a cambiare non è Piano dell’Offerta formativa (cioè, la sua articolazione interna e la sua natura progettuale, di cui parla l’articolo 3 del DPR 275), quanto piuttosto la collocazione del Piano dentro un modello organizzativo che – si intuisce, ma non si definisce – tenderebbe a uscire fuori da paradigmi partecipativi – quelli dei Decreti Delegati – considerati inefficaci e opachi..
È con questa prospettiva che – penso – dovremmo confrontarci, per evidenziare interrogativi e problemi, soprattutto in termini di garanzie dei soggetti in campo (DS compresi); ma anche le potenzialità, sul fronte soprattutto degli assetti organizzativi e della leadership di scuola.
Anche perché altre interpretazioni sono possibili.
È noto infatti che nelle mobilitazioni di aprile-giugno, sono circolate interpretazioni di altro segno, da considerare opportunamente.. Perciò è fondamentale e urgente che una nuova legge sulle forme di autogoverno delle istituzioni scolastiche – e più in generale sulla governance del sistema – chiarisca termini e senso di una partecipazione competente (si rinvia alle riflessioni in merito di Dario Missaglia e Franco De Anna) e del suo intreccio con i temi delle responsabilità rispetto ai risultati. Come è fondamentale che, al riguardo, si riavvii un dibattito possibilmente sereno su come dare gambe ad una idea di scuola come comunità professionale in primo luogo e come comunità di intenti e di cooperazione, per la quale valga la pena impegnarsi..
È questa prospettiva che, seppure non negata, non ha, nella nuova legge (che è pure benemerita per alcuni altri aspetti), un profilo chiaro e riconoscibile: mancando leve e misure per darle corpo (e per scaldare gli animi di quanti ci lavorano).
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[1] Nella formulazione del decreto dl 99, questa incombenza era a carico del Consiglio di Istituto o di Circolo.